Descrizione
Località Via Ghega, Trieste, Trieste, Friuli-Venezia Giulia
Data 23 aprile 1944
Matrice strage Nazista
Numero vittime 51
Numero vittime uomini 46
Numero vittime uomini ragazzi 1
Numero vittime uomini adulti 40
Numero vittime uomini anziani 2
Numero vittime uomini senza informazioni 3
Numero vittime donne 5
Numero vittime donne adulte 4
Numero vittime donne senza informazioni 1
Descrizione: La rappresaglia fu compiuta a seguito di un attentato dinamitardo nel cuore di Trieste, nel centralissimo edificio di palazzo Rittmeyer, in via Ghega, che i tedeschi avevano trasformato in Casa del Soldato tedesco – Deutsches Soldatenheim – , un circolo destinato a mensa per le truppe tedesche. Protagonisti della vicenda due partigiani azeri, Mirdamat Sejdov (nome di battaglia Ivan Ruskj) e Methi Husein Zade (nome di battaglia Mihajlo), soldati russi ex prigionieri, disertori della Wehrmacht in cui erano stati arruolati passati nelle file partigiane dell’esercito jugoslavo di liberazione. Si tratterebbe degli stessi partigiani che venti giorni prima avevano compiuto un attentato al cinema di Opicina - una delle principali frazioni della città di Trieste sul Carso – che aveva causato la morte di sette soldati tedeschi e la conseguente rappresaglia con la fucilazione di 71 persone. L’esplosione, secondo il rapporto dei carabinieri, avvenne alle ore 13,25 e danneggiò notevolmente vari locali dell’edificio. Il numero delle vittime tra i tedeschi non è definito in modo preciso negli atti ufficiali anche se la versione data dai tedeschi fu di 5 morti. Il 24 aprile il responsabile della Croce Rossa comunicava che erano state impiegate 5 autoambulanze e un camion attrezzato per sgomberare il più presto possibile la zona dell’attentato, «come la gravità del fatto richiedeva». Complessivamente vennero autotrasportati 21 militari tedeschi, 1 donna tedesca e 5 civili, tra cui 2 uomini e 3 donne. In totale furono coinvolti nell’esplosione 27 persone. Tra le vittime una passante triestina, certa Gina Valente.
La reazione tedesca all’attentato fu istantanea e feroce. Nella notte venne stesa una lista di 51 nomi di detenuti politici delle carceri del Coroneo. La mattina seguente questi vennero caricati alla rinfusa sugli automezzi e portati sul luogo dell’attentato, dove furono impiccati. Sulle modalità dell’esecuzione esistono due versioni contrastanti: c’è chi sostiene che le vittime, quando giunsero sul posto, erano già in stato d’incoscienza perché asfissiati o semiasfissiati dal gas di scarico del camion, probabilmente immesso all’interno dello stesso durante il tragitto; altri, invece, sostengono che il gruppo affrontò il supplizio con lucidità.
I condannati furono trascinati su per lo scalone del palazzo a gruppi di cinque, fatti montare sulla balaustra di marmo e quindi scaraventati nel vuoto con al collo il nodo scorsoio. Quando le ringhiere non furono più sufficienti per contenere tutti i corpi delle vittime, si pensò di appenderli alle finestre, nelle stanze, nei corridoi e persino negli armadi. Per cinque giorni i corpi furono lasciati penzolanti a monito per la popolazione triestina. I tedeschi impiegarono gli uomini della Guardia Civica per il servizio di guardia ai corpi delle vittime che furono poi portati al cimitero di S. Anna.
Le autorità tedesche presero da subito in mano tutte le indagini sull’attentato, estromettendo le autorità italiane e mantenendo la massima riservatezza. Il braccio di ferro tra movimento partigiano e forze tedesche per il controllo dei cittadini triestini si concretizza con il caos e il terrore da una parte e la rappresaglia per ristabilire l’ordine dall’altra. L’attentato di Via Ghega costituì la prima e più massiccia «lezione» per la massa italiana cittadina. Al di là delle dichiarazioni ufficiali degli occupatori, i cittadini di Trieste si trovarono di fronte ai primi atti pubblici di ritorsione violenta. Non c’era alcuna intenzione di ricercare i colpevoli, ma una necessità incombente di non lasciare impunita tale azione e di essere monito sia ai combattenti che ai semplici civili.
Le liste delle persone da giustiziare vennero approntate la notte stessa degli attentati; tutte le testimonianze riportate confermano l’esistenza di tali elenchi, in base ai quali gli addetti del carcere prelevarono i prigionieri. Che tipo di prigionieri facessero parte di queste liste lo indicano le stesse autorità tedesche in un comunicato nel quale sottolinearono il fatto che non si trattava di ostaggi, ma di condannati a morte. Fucilare degli ostaggi implicava, infatti, un precedente rastrellamento o arresto di persone considerate come ostaggi e poi una successiva pubblica minaccia di ucciderli in caso di attentati e i comandi tedeschi di Trieste ben sapevano che nessuna delle due azioni si era mai svolta nella città. Il Tribunale li riconobbe come complici immediati, ma le 51 vittime furono prelevate dal carcere dove in realtà erano rinchiuse da settimane o mesi, e impiccate la mattina del 23 aprile. Non venne fatto alcun serio tentativo per catturare i colpevoli, anzi la loro ricerca fu un’operazione «marginale» rispetto all’organizzazione della rappresaglia.
Trieste e le rappresaglie naziste
Al momento dei due attentati Trieste si trovava occupata già da circa otto mesi in una situazione contingente in continuo mutamento. Nelle strade la gente assisteva alle retate delle SS, vedeva i convogli partire dalla stazione centrale e da tempo alla Risiera si consumavano atroci delitti e torture. La realtà italiana di Trieste e del suo entroterra era assai mutata dopo l’8 settembre: la presenza slovena e croata in Istria si era rafforzata attorno al partito comunista sloveno, mentre con la primavera del 1944, nella provincia, soprattutto in Istria, l’organizzazione militare del movimento partigiano jugoslavo aveva conquistato una posizione egemonica. La città, invece, sede dell’amministrazione tedesca dell’OZAK e del comando di sicurezza dell’HSSPF Globocnik, era saldamente nelle mani delle forze naziste.
Lo storico Fogar ha sempre parlato di una cittadinanza fortemente divisa, dove rancori nazionali, scontri politici e soprattutto sociali si intrecciavano causando contrasti e lacerazioni all’interno della città. Lunghi anni di martellante propaganda fascista avevano rafforzato negli ambienti cittadini italiani il binomio bolscevismo - slavismo, mentre in quelli slavi: italiani uguale fascisti.
Gli stralci di tale politica influirono anche dopo la caduta del regime nel territorio, e complicarono all’interno della stessa resistenza i rapporti tra italiani e sloveni o croati. In città si svilupparono due partiti comunisti, quello italiano e quello sloveno, spesso in antitesi. Alla base di tale contrasto la scelta del futuro assetto nazionale di Trieste e del suo territorio. Lo stesso CLN triestino si trovò costretto a organizzarsi e a operare all’interno delle sole mura cittadine, in quanto nel territorio circostante la supremazia del movimento di liberazione sloveno era troppo evidente. Componevano il CLN il Partito Comunista Italiano (PCI), la Democrazia Cristiana (DC), il Partito d’Azione (PdA), il Partito Liberale Italiano (PLI) e il Partito Socialista Italiano (PSI). Il partito che soffriva di più tale situazione di stallo era il PCI, schiacciato tra le rivendicazioni nazionali slovene e croate da una parte, e le forti spinte ideologiche della lotta operaia comune dall’altra. Nell’autunno del 1944 il Partito Comunista Italiano uscì dal CLN di Trieste, per aderire a pieno alla linea del PCS. Secondo il movimento comunista il Comitato aveva una posizione troppo ambigua e veniva accusato di essere troppo filoborghese e diffidente nei confronti del movimento di liberazione sloveno. La prima organizzazione militare clandestina in città si sviluppò negli ambienti di «Giustizia e Libertà», che grazie all’impegno di figure democratiche quali Ercole Miani e Gabriele Foschiatti, riuscirono a costituire entro la primavera del ’44 tre Brigate: I “Foschiatti”, II “Frausin” e III “Garibaldi”. Intanto già nel 1942 si erano insediati a Trieste i primi nuclei dell’OF (il fronte di liberazione sloveno) e del Partito Comunista Sloveno (PCS) con adesioni fra la minoranza slovena cittadina. Dalla metà del 1944 si insediò anche un comando-città del IX Corpus, che indebolì sempre più la funzione militare del CLN, e cercò in parte di rallentare l’arruolamento di nuovi effettivi italiani nelle unità partigiane. Un importante tentativo di placare questa lotta intestina tra i due gruppi di resistenza fu fatto proprio nell’aprile del 1944. Delegati del PCI Alta Italia si incontrarono con i vertici del PCS e stipularono una serie di accordi di collaborazione. In sintesi tali accordi stabilivano la priorità della lotta contro il nazifascismo, di abbandonare per il momento ogni discussione sulle questioni territoriali e sui confini. La discussione definitiva di tali problemi si sarebbe dovuta fare in un secondo momento, solamente dopo la liberazione e sarebbe dipesa molto dalla situazione generale in questa parte d’Europa.
Sul piano militare l’accordo prevedeva la creazione della Brigata Garibaldi-Trieste, costituita ai primi di aprile del 1944, che sarebbe dovuta divenire il punto di riferimento principale per il CLN triestino. In realtà su questa unità il CLN poté contare per breve tempo in quanto dopo accordi tra la Garibaldi-Friuli e l’OF la brigata passò sotto il controllo militare del IX Korpus. Dal punto di vista politico l’accordo prevedeva la sola presenza del PCI e CLN nelle zone compattamente italiane e viceversa per il PCS e l’OF, mentre ci sarebbero stati due partiti e due Comitati nelle «zone miste». Questo punto rimase molto ambiguo, in quanto per gli sloveni «zone miste» erano anche quelle del Friuli Orientale, mentre nell’Istria ad esempio, le isole italiane venivano incluse nel territorio slavo. Per questi motivi sia Pallante che Fogar definiscono tali accordi «fragili»; di fatto furono disattesi dopo poco tempo sia sul piano politico che su quello militare. Il timore da parte di ampi settori sociali italiani nei confronti degli slavi e del movimento di liberazione jugoslavo, ampiamente sfruttato dai tedeschi, e il crescente inasprirsi dell’atteggiamento nazista spinsero gran parte della cittadinanza a guardare, almeno inizialmente, con cauta speranza al gruppo dirigente confindustriale dei Coceani, Pagnini, figure queste, del podestà e del prefetto, scelte dai tedeschi, che «sembravano offrire una specie di ancoraggio civile e politico su cui contare e un ruolo di mediazione verso i nazisti». Tali vicende interne portarono all’inerzia di consistenti settori della società triestina, ostacolando a lungo gli sforzi tesi a rendere più popolare la partecipazione attiva alla resistenza e più incisivo il risveglio civile e morale. Il risultato fu che gli attendisti rappresentarono la parte maggioritaria della popolazione e così spesso si è parlato di una «società messa sotto il sedativo “Mitteleuropa” in versione nazista». In questa particolare situazione si inseriscono i due attentati a Trieste (Opicina e via Ghega), che nella versione degli attentatori avrebbero avuto una finalità prettamente militare: avrebbero dovuto allentare la pressione tedesca nella zona più orientale del territorio. Il Comando del IX Korpus intendeva quindi dare respiro alle sue unità a est, che a causa dei continui attacchi da parte delle truppe tedesche rischiavano di essere distrutte? Se si voleva assestare un colpo veramente efficace alle truppe di occupazione, tale da sviare la loro attenzione dalle operazioni di rastrellamento allora avrebbero potuto scegliere obiettivi più strategici. Viene da chiedersi allora se accanto a valutazioni militari non ci fossero anche altre intenzioni nei comandi dell’OF. È utile qui ricordare che tutto il territorio dell’OZAK era stato definito, con decreto di Himmler del 9.11.1943, Bandenkampfgebiet e in tutto il territorio ci si imbatteva in cartelloni con su scritto «Achtung Banditen», «Attenzione zona infestata dalle Bande». Si è già visto all’inizio del capitolo, che nel febbraio del 1944 il Militärkommandantur 1001 di Trieste considerava «in generale tutte le strade del Litorale Adriatico minacciate dalle bande». La zona sicura per le forze tedesche potevano considerarsi unicamente le grandi città: Udine, Gorizia e soprattutto Trieste. Solo tra le mura cittadine, i tedeschi si sentivano al sicuro dagli attacchi partigiani, per lo meno sino ai due attentati di Trieste. La scelta degli obiettivi dell’attentato assumono quindi una loro funzione particolare: non furono colpiti obiettivi militari, o strategicamente significativi, ma luoghi di riposo, di ricreazione per le truppe di occupazione. All’interno di una guerra che non era solamente militare, ma anche di propaganda e psicologica, cosa c’era di meglio che attaccare i tedeschi nella “capitale” dell’OZAK, nel centro dell’amministrazione tedesca della zona. Scopo principale quindi risulta quello di aumentare la tensione delle truppe tedesche, già molto provate dalla guerriglia, non dando mai tregua e respiro. Gli obiettivi scelti dalle forze slovene furono ben meditati proprio per ridurre il rischio e aumentare l’efficacia soprattutto psicologica. Riprendendo le parole di Sejdov, alzare i toni dello scontro per il IX Korpus poteva significare colpire i tedeschi proprio dove meno se lo aspettavano, anche se a caro prezzo, per sé o per la popolazione. La rappresaglia a questo punto oltre che essere monito per la popolazione cittadina e affermazione di potere sui partigiani, assumeva un valore decisivo anche nei confronti degli stessi soldati tedeschi. Bisognava dare nuovo coraggio alle truppe, dare fiducia e rinvigorire il senso di sicurezza. La punizione, per fucilazione o impiccagione dei prigionieri, riaffermava la posizione di supremazia delle forze tedesche.
Come Portelli sostiene analizzando la rappresaglia seguita ai fatti di via Rasella a Roma, l’insopportabilità nei confronti dell’attentato dei tedeschi sta sì nella sua «gravità», ma soprattutto nella sua «visibilità» come oltraggio sfrontato. Era impossibile nascondere l’accaduto alla popolazione e ai propri uomini. Il rischio per i Comandi tedeschi era quello di un cedimento all’interno delle proprie forze, travolti da un senso di insicurezza e paura che la propaganda non sarebbe riuscita a sanare. La punizione del nemico-barbaro, che colpisce alla schiena, vista con gli occhi dei soldati tedeschi potrebbe apparire quindi come una riaffermazione della propria supremazia. Quando Marina Rossi chiese a Sejdov se si era pentito di ciò che aveva fatto dopo aver saputo delle rappresaglie egli rispose così: «quelle bombe le rimetterei. Non c’era altro modo per alzare il livello dello scontro, coinvolgere la popolazione e distruggere i nazisti».
È necessario a questo punto soffermarsi brevemente sul dibattito che ci fu all’interno della resistenza italiana triestina sui metodi di lotta che si dovevano seguire contro le forze di occupazione in città. Non poche furono le incomprensioni tra movimento sloveno e italiano, e all’interno di questo tra comunisti e gli altri partiti più moderati del CLN. Spazzali riporta una discussione tra don Edoardo Marzari, esponente della DC nel CLN, e il comunista Luigi Frausin avvenuta dopo l’attentato di via Ghega. Durante l’incontro Frausin «si era felicitato dicendo che così veniva scosso il torpore dei triestini». L’esponente del PCI con la sua affermazione rispecchia il pensiero di gran parte del movimento comunista triestino, non si intende marcare il passo rispetto all’iniziativa condotta dagli sloveni: «se era stato alzato il tiro dell’atto terroristico, questo doveva trovare un adeguato allineamento da parte italiana». La parte più moderata del CLN, rappresentata dai cattolici, temeva fortemente che si iniziasse una spirale di morte contro la popolazione, ostaggio delle continue rappresaglie tedesche. Queste componenti politiche del CLN non volevano compromettere il rapporto con i cittadini. Si temeva di perdere consenso in città, di compromettere quel già pericolante rapporto con la componente italiana di Trieste, stretta tra nazifascismo da una parte e il movimento slavo dall’altra.
Il punto di vista di Sejdov è chiaro e presenta una doppia finalità dell’attentato: distruggere i nazisti e coinvolgere la popolazione nella lotta partigiana. I cittadini di Trieste mai come nella primavera del 1944 furono messi di fronte all’evidenza della politica di repressione nazista. La bomba che fece breccia nella facciata del Palazzo Rittmeyer, «squarciò anche il velo che sino ad allora a Trieste aveva più o meno efficacemente nascosto l’attività delittuosa dei nazisti». Di fronte al primo atto pubblico di ritorsione violenta fu chiaro alla popolazione triestina che era coinvolta direttamente nella lotta antipartigiana e che nessuno ne era escluso
Modalità di uccisione: impiccagione
Trattamento dei cadaveri: Esposizione dei cadaveri
Tipo di massacro: rappresaglia
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Scheda compilata da Giorgio Liuzzi
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Ultimo aggiornamento dei dati: 2018-01-25 14:39:34
Vittime
Elenco vittime
Biagi Francesco 17/04/1912 31 Bresie - Postumia (Trieste) ora Croazia Bresie - Postumia (Trieste) ora Croazia n.d n.d n.d
Biziak Rosa - nata Hirmo 29/08/1912 31 Crestia - Postumia (Trieste) ora Croazia Crestia - Postumia (Trieste) ora Croazia n.d n.d n.d
Blasi Giovanni 01/01/1903 41 Studenza - Postumia (Trieste) ora Croazia Studenza - Postumia (Trieste) ora Croazia n.d n.d n.d
Bolle Giovanni 05/01/1892 52 Cernovizza (Grenovizza) Postumia (Trieste) ora Croazia Londolo - Postumia (Trieste) ora Croazia n.d n.d n.d
Bravo (Banof - Banov) Giovanni 07/04/1924 20 Stretto - Sebenico (Jugoslavia) Vorter n.d n.d n.d
Burich (Bulich) Giovanni 23/06/1918 25 Zara Zara n.d n.d n.d
De Kleva Giuseppe 17/11/1907 36 Arecca - Pola Arecca - Pola n.d n.d n.d
Folischia (Feliseliz) Alberto 04/04/1918 26 Pinerolo (Torino) Artegna (Udine) n.d n.d n.d
Folischia (Feliseliz) Francesco 07/09/1903 40 Artegna (Udine) Artegna (Udine) n.d n.d n.d
Germani Gilberto 15/03/1903 41 San Daniele del Carso San Daniele del Carso n.d n.d n.d
Germek (Grmek) Zora n.d n.d n.d n.d n.d n.d n.d
Grcic (Grgie) Stanko n.d n.d n.d n.d n.d n.d n.d
Guzzi Stanislao 08/09/1904 39 Sesana - Trieste (Slovenia) Sesana - Trieste (Slovenia) n.d n.d n.d
Hrvatic Rodolfo n.d n.d n.d n.d n.d n.d n.d
Hus Stanko n.d n.d n.d n.d n.d n.d n.d
Jurman Francesco 14/02/1900 44 San Pietro in Selve - Pola San Pietro in Selve - Pola n.d n.d n.d
Kariz (Karis) Ilario 02/06/1908 35 Aurisina (Trieste) Capriva del Carso n.d n.d n.d
Krizai Alois (Luigi) 26/5/1897 46 Arecca - Pola Arecca - Pola n.d n.d n.d
Krizai Carlo 23/02/1928 16 Arecca - Pola Arecca - Pola n.d n.d n.d
Makoric Angelo 03/06/1913 30 Clove - Fiume Clove - Fiume n.d n.d n.d
Paulin Francesco 12/3/1876 68 Oseliano (Gorizia) -ora Slo? Oseliano (Gorizia) n.d n.d n.d
Periz Rodolfo 16/6/1898 45 Brestovizza (Gorizia) Monfalcone n.d n.d n.d
Petelin Carlo 11/03/1915 29 Boriano (Gorizia) Trieste n.d n.d n.d
Premru (Tremrl o Premrl) Francesco 12/05/1901 42 Strane (Potumia) - Trieste (ora Croazia) Cernivizza (Postumia) - Trieste (ora Croazia) n.d n.d n.d
Saba (Sabec) Alois (Luigi) 14/06/1910 33 Raccolico (Postumia) - Trieste (ora Croazia) Raccolico (Postumia) - Trieste (ora Croazia) n.d n.d n.d
Serblin (Serbelin) Giovanni 10/9/1889 54 San Pietro in Selve - Pola San Pietro in Selve - Pola n.d n.d n.d
Stegel Antonio 14/01/1892 52 Arecca - Pola Arecca - Pola n.d n.d n.d
Turchi Francesco 09/12/1915 28 Cernovizza (Grenovizza) Postumia (Trieste) ora Croazia Cernivizza (Postumia) - Trieste (ora Croazia) n.d n.d n.d
Turchi Giuseppe 18/04/1926 18 Cernovizza (Grenovizza) Postumia (Trieste) ora Croazia Cernivizza (Postumia) - Trieste (ora Croazia) n.d n.d n.d
Turchi Stanislao 09/04/1922 22 Cernovizza (Grenovizza) Postumia (Trieste) ora Croazia Cernivizza (Postumia) - Trieste (ora Croazia) n.d n.d n.d
Turk (Turki) Maria 21/10/1920 23 Cernovizza (Grenovizza) Postumia (Trieste) ora Croazia Cernivizza (Postumia) - Trieste (ora Croazia) n.d n.d n.d
Zenko (Zelko) Venceslao 07/03/1922 22 Rachiteni (Postumia) - Trieste ora Croazia Rachiteni (Postumia) - Trieste ora Croazia n.d n.d n.d
Ziani Felice 21/12/1925 18 Savogna d\'Isonzo (Gorizia) Savogna d\'Isonzo (Gorizia) n.d n.d n.d
Zovich Antonio 2/10/1896 47 San Pietro in Selve - Pola San Pietro in Selve - Pola n.d n.d n.d
Elenco vittime partigiani 17
Elenco vittime indefinite 34
Responsabili o presunti responsabili
Memorie
Memorie legate a questa strage
lapide a
Tipo di memoria: lapide
Descrizione: Una lapide, posta sulla facciata ricorda l’eccidio: “Alle finestre e lungo le scale di questo palazzo, il 23 aprile 1944, cinquanta pendenti salme di martiri mostrarono alla città inorridita, la ferocia dell’irato germanico tiranno ciecamente sfogata su uomini di liberi sensi inermi prigionieri in sue mani. A perpetuo ricordo dei sacrificati pose il Comune – 23 aprile 1947.